Lo hanno stabilito le Sezioni Unite della Suprema Corte con la Sentenza n. 6882/2019 del 8.03.2019.
Oggetto della clausola di cui si discute nella predetta sentenza sono non già le imposte dirette gravanti sulla locatrice bensì meramente quelle gravanti sull’immobile e inerenti allo stipulato contratto.
Tale clausola è, quindi, applicabile all’IMU, la cui disciplina non contempla una norma che vieta i patti volti a trasferire l’onere impositivo (come era per esempio per l’INVIM).
La tematica della traslazione dell’imposta era già stata affrontata dalle Sezioni Unite con due sentenze del 1985.
In particolare:
- con la sentenza n. 5 del 1985 veniva affermata la nullità del patto volto a trasferire su altri il peso del proprio dovere di solidarietà sociale di concorrere alla spesa pubblica, in quanto, così facendo, il soggetto obbligato ex lege in sottrarrebbe la propria ricchezza alle limitazioni sociali di solidarietà e di perequazione.
- Hanno, quindi, considerato vietato qualunque patto “con il quale un soggetto, ancorchè senza effetti nei confronti dell’erario, riversi su altro soggetto, pur se diverso dal sostituto, dal responsabile d’imposta e dal cosiddetto contribuente di fatto il peso della propria imposta, sia che si tratti d’imposta diretta che di imposta indiretta”.
- Con la sentenza n. 6445 del 1985 le Sezioni Unite di questa Corte hanno, invece, diversamente affermato che il patto traslativo d’imposta “è nullo per illiceità della causa contraria all’ordine pubblico solo quando esso comporti che effettivamente l’imposta non venga corrisposta al fisco dal percettore del reddito”, cosa che non succede nell’ipotesi in cui “l’imposta è stata regolarmente e puntualmente pagata dal contribuente al fisco, allorquando cioè l’obbligazione di cui si stipula l’accollo non ha per oggetto direttamente il tributo, nè mira a stabilire che esso debba essere pagato da soggetto diverso dal contribuente”, ma “riguarda… una somma di importo pari al tributo dovuto ed ha la funzione di integrare il “prezzo” della prestazione negoziale”.
- Hanno quindi ritenuto che “con il contratto di locazione qui in esame le parti, sia pure con due distinte clausole contrattuali, hanno voluto determinare il canone locativo in due diverse componenti, rappresentate l’una dalla parte espressamente qualificata come tale ed oggetto della pattuizione contenuta nell’art. 4, e l’altra come componente integrante tale misura, costituita dalla pattuizione specificamente oggetto della domanda di nullità qui azionata”.
Il principio delineato da Cass., Sez. Un., n. 6445 del 1985, condiviso dalla dottrina maggioritaria, ha successivamente ricevuto costante conferma da parte di questa Corte, venendo a costituire principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità.
- Nel caso che ha occupato il Supremo Collegio di cui alla sentenza del 8.03.2019, il Collegio ritiene che le doglianze mosse dall’odierna ricorrente avverso l’impugnata sentenza non siano idonee a revocare in dubbio la correttezza della soluzione raggiunta nel 1985, e non inducano a dover rimeditare un orientamento interpretativo che al contrario merita di essere ulteriormente confermato.
- La clausola contrattuale di cui all’art. 7.2 in argomento è stata nell’impugnata sentenza intesa come prevedente un’ulteriore voce o componente (la somma corrispondente a quella degli assolti oneri tributari) costituente integrazione del canone locativo, concorrendo a determinarne l’ammontare complessivo a tale titolo dovuto dalla conduttrice.
- Orbene, tale clausola risulta dalla corte di merito nell’impugnata sentenza correttamente interpretata, alla stregua dei principi posti a fondamento del suindicato consolidato orientamento.
- In particolare là dove, dopo aver premesso che il legislatore ha “ritenuto di vincolare l’autonomia negoziale dei contraenti soltanto per quanto attinente alla durata del contratto, alla tutela dell’avviamento e alla prelazione, mentre l’ammontare del canone locativo è lasciato alla libera determinazione delle parti, che possono ben prevedere l’obbligazione di pagamento per oneri accessori”, tale giudice, movendo dal dato letterale (in particolare avvertendo che la parola “manlevare” va intesa nel senso di “operare un rimborso” o “una diversa forma di pagamento variamente posta a carico del conduttore”) ha riguardato la clausola de qua alla stregua del complessivo tenore del contratto, al riguardo ponendo in rilievo come con “due distinte clausole contrattuali” di un “unico atto”, le parti abbiano nella specie inteso “determinare il canone in due diverse componenti, rappresentate l’una dalla parte espressamente qualificata come tale ed oggetto della pattuizione contenuta nell’art. 4″, e l’altra “come componente integrante tale misura, costituita dalla pattuizione specificamente oggetto della domanda di nullità qui azionata (art. 7.2 (i))”.
- Là dove ha ulteriormente posto in rilievo che la stessa previsione della “fatturazione del rimborso degli oneri per imposte di cui al citato art. 7.2 (i)” risulta invero coerente “con la natura di rimborso di tale componente del canone, poichè è ben vero che le relative imposte sono pur sempre sostenute dal proprietario dell’immobile e l’ente impositore (Stato, Comune o altro) individua in esso il soggetto che è tenuto a farvi fronte, ma questo si disinteressa se poi, per accordo privato, i contraenti scelgano di operare un rimborso” (sottolineando che in tal senso deve interpretarsi l’uso della parola “manlevare”) o “una diversa forma di pagamento variamente posta a carico del conduttore”.
- Al dato letterale della clausola la corte di merito ha dunque attribuito significato -come detto- alla luce delle pregresse trattative, nonchè, e primieramente, dell’interesse pratico che con la stipulazione e la specifica previsione in argomento le parti hanno nella specie inteso in concreto realizzare.
- A tale stregua, diversamente da quando sostenuto dall’odierna ricorrente, la corte di merito ha fatto invero piena e corretta applicazione del principio affermato da questa Corte in base al quale ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti il primo e principale strumento rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate va invero verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, le singole clausole dovendo essere considerate in correlazione tra loro procedendosi al relativo coordinamento ai sensi dell’art. 1363 c.c., giacchè per senso letterale delle parole va intesa tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (v. Cass., 28/8/2007, n. 828; Cass., 22/12/2005, n. 28479; 16/6/2003, n. 9626).